Negli Stati Uniti è in corso una trasformazione silenziosa ma potente, che sta toccando il cuore dell’alimentare: la marca del distributore. Nel Paese che più di ogni altro ha costruito la propria identità di consumo attorno alla forza dei brand industriali — patria dei grandi budget pubblicitari, del marketing moderno e della fedeltà quasi emotiva ai marchi — si apre una nuova fase competitiva. Ed è una fase che, volenti o nolenti, comincia sempre più a somigliare all’Europa.
La domanda cruciale diventa quindi un’altra: quanto è davvero pronto il mercato americano ad accogliere la rivoluzione della private label?
Gli Stati Uniti hanno storicamente rappresentato il paradiso dei marchi industriali. Qui è nato il concetto stesso di branded good, qui si è formata l’industria del largo consumo fondata su marketing di massa, ripetizione, riconoscibilità, aspirazione. In questo contesto, penetrare con una private label è sempre stato difficilissimo. Eppure, oggi il mercato presenta alcuni segnali inequivocabili: Le vendite di private label negli USA crescono più di quelle dei brand industriali: +4,2% nelle ultime 52 settimane (fonte: NielsenIQ). I brand industriali crescono molto meno: +1,1% nello stesso periodo. Il gap con l’Europa resta enorme: in Europa occidentale la private label vale il 39% delle vendite totali, oltre 20 punti in più rispetto agli USA.
L’America resta quindi lontana dagli standard europei, ma mostra un trend che non si può ignorare: la private label sta conquistando gli scaffali e l’immaginario dei consumatori. Walmart è da sempre l’icona della distribuzione USA, ed il suo potere commerciale è gigantesco, anche se spesso sovrastimato: la quota di mercato retail complessiva è circa il 6%. Ma nel grocery il suo peso è molto superiore, e soprattutto è il retailer che più influenza i modelli competitivi.
Le sue private label — soprattutto Great Value e la nuova premium line Bettergoods — hanno ormai un ruolo strategico: le private label di Walmart valgono circa il 30% delle sue vendite complessive (fonte: TalkBusiness, 2025). In molte categorie alimentari superano il 25% delle unità vendute. La private label diventa uno strumento di negoziazione nei confronti dei brand industriali: se il fornitore non scende al prezzo richiesto, Walmart spinge il suo marchio.
La forza dell’offerta industriale rimane immensa, e l’America resta il Paese dove il consumatore si fida più del brand che dell’insegna. Ma la crescita della private label è ormai strutturale, inevitabile.
Aldi e Lidl: la rivoluzione europea trova ostacoli americani
L’arrivo e l’espansione di Aldi e Lidl — veri architetti del successo della MDD in Europa — rappresentano l’elemento di discontinuità più evidente. Aldi aprirà oltre 200 nuovi store nel 2025 e punta a 800 aperture in 5 anni. L’assortimento private label di Aldi è circa il 90%. Lidl opera con private label all’80% e sta crescendo nell’area di New York, Washington e Atlanta.
Tuttavia, esiste un ostacolo enorme che l’Europa non aveva: i dazi sulle importazioni alimentari.
Per portare prodotti europei negli USA, soprattutto in era Trump 2.0, i costi aumentano e il posizionamento si complica. Aldi e Lidl devono quindi scegliere se importare pagando dazi elevati, perdendo competitività, oppure trovare produttori nordamericani che possano replicare qualità e concept europei. Questa seconda strada è oggi quella più percorsa.
È in questo contesto che si inserisce la fiera PLMA di Chicago, in programma questa settimana. La fiera è una grande opportunità, ma anche una trappola potenziale per gli europei: tra le opportunità non possiamo non menzionare il fatto che il pubblico americano è il più ricettivo di sempre. Il fatto che i retailer cercano nuove fonti di approvvigionamento per sostenere la crescita della private label. E poi, non si sottovaluti il fatto che i buyer sudamericani presenti (Perú, Colombia, Cile, Messico) sono spesso più accessibili e con marginalità migliori.
Ci sono però grossi rischi che qui elenchiamo: entrare nel mercato Usa oggi significa accettare margini bassissimi. È palese – e purtroppo già chiaro – che i dazi tagliano la competitività dei prodotti europei. I retailer chiedono volumi alti e listini estremamente compressi. Per molte aziende europee, quindi, la vera opportunità potrebbe non essere l’America, bensì i buyer internazionali che arrivano alla fiera. Ma forse, allora, sarebbe meglio la PLMA di Amsterdam.
Perché negli USA la private label resta ancora lontana dal “modello europeo”
Nonostante tutto, bisogna chiarire un punto fondamentale: negli Stati Uniti la private label non è ancora esplosa. Nelle categorie alimentari difficilmente supera il 20–25%, il rapporto emotivo e culturale tra consumatore e brand è ancora fortissimo. Le grandi marche industriali hanno una marginalità negli USA molto superiore rispetto all’Europa, e quindi risorse più ampie per difendersi.
In Italia — dove la MDD supera abbondantemente il 30% — il limite è legato alla struttura della distribuzione (parcellizzazione, ruolo del trader), negli USA no: qui il limite è culturale, è il consumatore.
In conclusione, gli Stati Uniti stanno entrando nella loro “fase europea” della private label. Aldi, Lidl e Walmart stanno accelerando il processo; l’inflazione e il potere d’acquisto fanno il resto. Ma parlare di “boom MDD” sarebbe sbagliato: gli USA restano il Paese dei brand, della loyalty industriale, della forza commerciale delle grandi multinazionali del largo consumo. La crescita della private label continuerà — perché economicamente inevitabile — ma il percorso sarà più lento, più complesso e più americano di quanto si immagini.



















