Gli Stati Uniti, pur non essendo produttori di caffè verde, rappresentano il secondo importatore mondiale dopo l’Unione Europea, con una quota pari al 18% del totale globale. I principali Paesi di origine per l’import caffeario statunitense sono Brasile (32%), Colombia (20%) e Vietnam (8%).
L’introduzione da parte dell’amministrazione USA di nuovi dazi all’importazione rappresenta un potenziale fattore inflattivo per i prezzi interni. In particolare, è stato stabilito un dazio del 10% per i flussi provenienti da Brasile e Colombia, mentre le importazioni dal Vietnam sono soggette a un’imposta del 46%. Provvedimenti simili sono stati estesi anche ad altri Paesi esportatori, con dazi del 10% per l’Honduras e del 32% per l’Indonesia.
Secondo le analisi della società di consulenza Areté, l’annuncio dei nuovi dazi ha innescato una reazione sui mercati internazionali, dove si riflettono i timori di una contrazione della domanda statunitense. A ciò si aggiunge un più ampio contesto macroeconomico segnato da prospettive recessive, che alimenta ulteriori incertezze sulla tenuta dei consumi globali.
In risposta alle pressioni interne, l’amministrazione Trump ha comunicato la sospensione per 90 giorni dei dazi superiori al 10%. Tuttavia, la misura non ha avuto effetti stabilizzanti sui mercati. Dal 2 aprile, infatti, le quotazioni della varietà arabica al mercato ICE hanno registrato una flessione del 12%.
L’evoluzione della politica commerciale statunitense continuerà a incidere sui flussi globali e sulla formazione dei prezzi. I riflessi per l’intera filiera del caffè, dalla produzione alla distribuzione, saranno oggetto di attenzione nei prossimi mesi, anche alla luce delle dinamiche di sostituzione tra origini e dell’evoluzione dei consumi nei mercati maturi.